Vangeli Apocrifi della Passione di Cristo

Vangelo di Gamaliele

Il Vangelo di Gamaliele è un vangelo apocrifo con attribuzione pseudoepigrafa a Gamaliele, stimato maestro ebreo del I secolo. Datato al IV secolo, è scritto in copto, forse rielaborante materiale greco precedente.Descrive gli eventi della domenica di Pasqua successivi alla risurrezione di Gesù e esalta la figura di Pilato e sua moglie Procla, che prendono in consegna la Sindone.È evidente la dipendenza da un altro vangelo apocrifo relativo alla passione, il Vangelo di Nicodemo o Atti di Pilato.Come gli altri vangeli della passione, il Vangelo di Gamaliele è all'origine dell'esaltazione cristiana di Pilato e sua moglie Procla, considerati santi dalle chiese greco-ortodossa e copta.

Vangelo di Nicodemo

Il Vangelo di Nicodemo è un vangelo apocrifo con attribuzione pseudoepigrafa a Nicodemo, discepolo di Gesù. Datato al II secolo, è scritto in greco. Similmente agli altri vangeli della passione (Vangelo di Gamaliele, Vangelo di Pietro) descrive la passione di Gesù discolpando Pilato. Fa parte del cosiddetto Ciclo di Pilato, una serie di scritti apocrifi più o meno antichi centrati sulla figura di Pilato.(primi 10 capitoli)Il testo risulta composto da tre sezioni originariamente indipendenti:cc. 1-11: Atti di Pilatocc. 12-16: Vangelo di Nicodemo vero e propriocc. 17-29: Discesa agli inferi di Gesù

Vangelo di Pietro Apostolo

Il Vangelo di Pietro è un vangelo apocrifo con attribuzione pseudoepigrafa a Pietro apostolo. Scritto in greco e datato dalla maggior parte degli studiosi intorno alla metà del II secolo, il frammento pervenuto descrive la passione, la morte e la resurrezione di Gesù con una forte connotazione anti-ebraica, chiaramente visibile nella narrazione che scagiona Ponzio Pilato dalla morte di Gesù, attribuendone la colpa al re Erode Antipa e agli Ebrei.Il Vangelo di Pietro è un vangelo apocrifo con attribuzione pseudoepigrafa a Pietro apostolo. Scritto in greco e datato dalla maggior parte degli studiosi intorno alla metà del II secolo, il frammento pervenuto descrive la passione, la morte e la resurrezione di Gesù con una forte connotazione anti-ebraica, chiaramente visibile nella narrazione che scagiona Ponzio Pilato dalla morte di Gesù, attribuendone la colpa al re Erode Antipa e agli Ebrei.
L'esistenza del Vangelo di Pietro è attestata diverse volte nella letteratura cristiana antica, ma in tutti i casi meno uno il testo non è citato né se ne racconta l'origine.Origene (185-250) cita il Vangelo di Pietro in una sola occasione, nella sua vasta produzione. Racconta infatti l'opinione di alcuni, secondo i quali i fratelli di Gesù erano figli di Giuseppe avuti da una prima moglie, allo scopo di sostenere la dottrina della verginità perpetua di Maria.Il fatto che Origene faccia riferimento al Vangelo di Pietro «o [al] Libro di Giacomo» fa ritenere ad alcuni studiosi moderni che non conoscesse il Vangelo di Pietro di prima mano; altri ritengono che il riferimento al «Libro di Giacomo» sia invece da intendere come un riferimento al Protovangelo di Giacomo.Nella sua Storia ecclesiastica, Eusebio di Cesarea, scrivendo dopo il 324, riporta la storia di Serapione, vescovo di Antiochia dal 190 al 203. Eusebio riproduce un brano di un'opera di Serapione (forse una lettera) intitolata Sul cosiddetto Vangelo di Pietro e indirizzata alla comunità di Rhossos, non lontana da Antiochia, nella quale il vescovo ricorda di aver visitato la comunità cristiana che adottava quel vangelo e, pur negando che il suo vero autore potesse essere l'apostolo Pietro, aveva consentito che lo si leggesse, essendo conforme alla linea ortodossa prevalente. Tempo dopo, Serapione venne informato che in realtà quel vangelo «celava un'eresia», che egli sembra attribuire a un certo Marciano, e che lui aveva individuato col docetismo. Serapione riferisce di aver letto con attenzione il vangelo e di aver avuto modo «di ritrovarvi, insieme a gran parte della vera dottrina del Salvatore, anche alcune aggiunte, che abbiamo altresì sottoposto alla vostra attenzione».Eusebio sottolinea che a Pietro erano stati attribuiti scritti quali gli «Atti di Pietro, il Vangelo detto secondo Pietro, la cosiddetta Predicazione e la cosiddetta Apocalisse» che tuttavia «non sono stati tramandati fra gli scrittori cattolici, poiché nessuno degli scrittori ecclesiastici, antichi o moderni, ha fatto ricorso a testimonianze desunte da queste opere» e, respingendo come spuria anche la cosiddetta Seconda lettera di Pietro, conclude accettando come autentica la sola Prima lettera di Pietro.Con la fissazione del canone dei libri ortodossi, definito nel concilio di Ippona del 399 e ottenuto in base all'elenco degli scritti formulato in una lettera del 367 da Atanasio di Alessandria, il Vangelo di Pietro e tutti gli altri scritti eterodossi, non più tramandati o distrutti, vennero presto dimenticati. Infatti, il posteriore riferimento al Vangelo di Pietro fatto nel V secolo da Teodoreto di Ciro il quale, riferendosi alla setta dei Nazarei, scrive che «essi sono Giudei che onorano Cristo e usano il vangelo chiamato secondo Pietro», è un'affermazione del tutto inverosimile, che dimostra solo come Teodoreto non conoscesse quel vangelo, come non lo conosceva Girolamo che, interpretando erroneamente il passo di Eusebio, attribuiva al vescovo Serapione il Vangelo di Pietro. Filippo di Side, infine, intorno al 430, si limita a scrivere che gli antichi «rifiutavano assolutamente il vangelo secondo gli Ebrei, quello detto di Pietro e quello di Tommaso, affermando che erano opere di eretici».Esiste anche un reperto archeologico, datato al VI-VII secolo e pubblicato nel 1904, che dimostrerebbe come il Vangelo di Pietro, se pure in letteratura non venne più citato dal V secolo, continuò a circolare. Si tratta di un ostrakon, un frammento triangolare di ceramica di 7,5 x 10 x 12,25 cm, dove è raffigurato un uomo barbuto, che regge una croce e ha un gesto di preghiera: sopra la testa è scritto in greco «San Pietro Evangelista», mentre sul rovescio dell'ostrakon appare la scritta «Veneriamolo, riceviamo il suo Vangelo». Sembra certo, allora che «qualcuno venerava Pietro e il suo Vangelo, qualcuno che viveva in Egitto circa 400 o 500 anni dopo che Serapione aveva proibito l'uso del Vangelo; e questo egiziano non era solo, ma doveva far parte di una comunità che aveva una copia contemporanea del Vangelo e lo accettava come testo sacro. Neanche la comunità di chi scrisse l'ostrakon era isolata: un frammento del Vangelo venne seppellito, presumibilmente come oggetto caro, nella tomba di un monaco un secolo dopo o forse più. Noi avremo anche perduto il Vangelo di Pietro, ma nei primi secoli del Cristianesimo era ampiamente usato e continuò a esserlo fino all'inizio del Medioevo in alcune parti della chiesa»

La composizione del Vangelo di Pietro

La datazione del Vangelo di Pietro è comunemente fatta risalire intorno al 150 o poco dopo, stante la sua dipendenza dai vangeli sinottici e da Giovanni, costituendo la lettera del vescovo Serapione riportata da Eusebio il termine ante quem. Chi invece non presta fede alla testimonianza di Serapione tende a spostare in avanti la data di composizione, a motivo della forte intonazione anti-giudaica del testo, che attesta sia che il vangelo fu scritto lontano dalla Palestina, sia che la rottura con gli ambienti ebraici era già stata decisamente consumata. Altri studiosi, come John Dominic Crossan, lo ritengono invece una fonte molto antica.Secondo Maurer  esso sarebbe «un tardo sviluppo del materiale tradizionale dei quattro Vangeli canonici», mentre per Craveri «è poco più di un centone, composto con espressioni desunte indifferentemente dall'uno o dall'altro dei Vangeli canonici, senza particolari motivi dottrinali che giustifichino tale scelta. I ritocchi e le aggiunte servono soltanto, nelle intenzioni dell'autore, a convalidare e a colorire meglio il racconto canonico». Per Cattaneo vi si trovano tracce di docetismo.Il Vangelo di Pietro dice esplicitamente di essere un'opera di Pietro apostolo:« Ed io con i miei compagni soffrivamo; ed essendo feriti nell'animo ci nascondemmo. »(Vangelo di Pietro, 7)« Ma io Simon Pietro e Andrea mio fratello prendemmo le nostre reti e andammo al mare. »(Vangelo di Pietro, 14)Quello di associare un testo al nome di un apostolo era una pratica comune che serviva a dare all'opera maggiore autorevolezza. Poiché il consenso degli studiosi considera il Vangelo di Pietro composto molti anni dopo la morte dell'apostolo, l'opera è ritenuta pseudoepigrafica; si potrebbe però trattare del più antico scritto tutt'ora esistente prodotto e fatto circolare sotto l'autorità di Pietro.

Il ritrovamento del Vangelo Apocrifo di Pietro

Nei primi mesi del 1887 gli scavi condotti dall'archeologo francese Grébant non lontano dal Cairo portarono alla luce i resti della città di Akhmim. Nel cimitero cristiano fu aperta la tomba di un monaco, nella quale fu trovato un manoscritto greco risalente al VII o VIII secolo. Delle 66 pagine di cui è composto, la prima contiene una decorazione a forma di croce, dalla seconda alla dodicesima il testo identificato come frammento del Vangelo di Pietro, e nelle altre un frammento dell'Apocalisse di Pietro, due passi del Primo libro di Enoch e un frammento degli Atti di san Giuliano. Il testo fu pubblicato per la prima volta a Parigi nel 1892 nelle «Mémoires publiées par les membres de la mission archéologique française au Caire». L'opera fu divisa in quattordici capitoli nell'edizione di Robinson e in sessanta versetti in quella di Harnak, ed è quella comunemente seguita.La pergamena, conservata nel Museo del Cairo e classificata come «P. Cair. 10759», è stata datata al VII–VIII secolo. Esistono altri tre brevi frammenti greci che sono accostati al codice del Cairo, dei quali solo il «P. Oxy. 2949», datato al II-III secolo e conservato ad Oxford, attiene quasi certamente al Vangelo di Pietro, riproducendone parzialmente il versetto II, 3: «[Si trovava là Giuseppe], l'amico di Pilato [e del Signore. E allorché vide che lo avrebbero crocifisso, andò da Pilato e gli chiese il corpo del Signore] per la sepoltura».

Dichiarazione di Giuseppe di Arimatea

La Dichiarazione (o narrazione) di Giuseppe di Arimatea è un apocrifo del Nuovo Testamento di incerta datazione, il cui manoscritto più antico (codice ambrosiano E140) è in greco e risale al XII secolo. Solitamente viene catalogato tra i vangeli della passione apocrifi, ma la tradizione manoscritta lo ha accostato agli scritti del Ciclo di Pilato, sebbene il prefetto romano svolga nell'apocrifo un ruolo marginale.Il testo riporta la narrazione in prima persona di Giuseppe d'Arimatea degli eventi della passione, morte e risurrezione di Gesù. Viene dato particolare risalto alla storia e al ruolo dei due 'ladroni' crocifissi con Gesù, che il testo chiama Dema (quello buono) e Gesta (quello cattivo).